Afferma che:
–il Consiglio di Stato ha già chiarito che il pericolo di infiltrazione mafiosa deve essere valutato secondo un ragionamento induttivo, di tipo probabilistico, che non richiede di attingere un livello di certezza oltre ogni ragionevole dubbio, tipica dell’accertamento finalizzato ad affermare la responsabilità penale, e quindi fondato su prove, ma implica una prognosi assistita da un attendibile grado di verosimiglianza, sulla base di indizi gravi, precisi e concordanti, sì da far ritenere “più probabile che non”, il pericolo di infiltrazione mafiosa (v., per tutte, Cons. St., sez. III, 30 gennaio 2019, n. 758; Cons. St., sez. III, 3 maggio 2016, n. 1743);
-il legislatore – art. 84, comma 3, codice antimafia – riconosce quale elemento fondante l’informazione antimafia la sussistenza di «eventuali tentativi» di infiltrazione mafiosa «tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate». Eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa e tendenza di queste ad influenzare la gestione dell’impresa sono all’evidenza tutte nozioni che delineano una fattispecie di pericolo, propria del diritto della prevenzione, finalizzate, appunto, a prevenire un evento che, per la stessa scelta del legislatore, non necessariamente è attuale, o inveratosi, ma anche solo potenziale, purché desumibile da elementi non meramente immaginari o aleatori. Il pericolo – anche quello di infiltrazione mafiosa – è per definizione la probabilità di un evento e, cioè, l’elevata possibilità e non mera possibilità, la semplice eventualità che esso si verifichi. Il diritto amministrativo della prevenzione antimafia in questa materia non sanziona perciò fatti, penalmente rilevanti, né reprime condotte illecite, ma mira a scongiurare una minaccia per la sicurezza pubblica, l’infiltrazione mafiosa nell’attività imprenditoriale, e la probabilità che siffatto “evento” si realizzi;
-Il pericolo dell’infiltrazione mafiosa non può sostanziarsi in un sospetto della pubblica amministrazione o in una vaga intuizione del giudice, che consegnerebbero l’istituto ad un diritto della paura, ma deve ancorarsi a condotte sintomatiche e fondarsi su una serie di elementi fattuali, taluni dei quali tipizzati dal legislatore (art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011: si pensi, per tutti, ai cc.dd. delitti spia), mentre altri, “a condotta libera”, sono lasciati al prudente e motivato apprezzamento discrezionale dell’autorità amministrativa, che “può” – si badi: può – desumere il tentativo di infiltrazione mafiosa, ai sensi dell’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011, da provvedimenti di condanna non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali «unitamente a concreti elementi da cui risulti che l’attività di impresa possa, anche in modo indiretto, agevolare le attività criminose o esserne in qualche modo condizionata».
– il d. lgs. n. 159 del 2011 prevede anche, nell’art. 84, comma 4, lett. d), che gli elementi sintomatici dell’infiltrazione mafiosa, anche al di là di quelli previsti dall’art. 91, comma 6, possano essere desunti anche «dagli accertamenti disposti dal prefetto». Il Collegio non ignora che voci fortemente critiche rispetto alla presunta indeterminatezza dei presupposti normativi che legittimano l’emissione dell’informazione antimafia, soprattutto dopo la recente pronuncia della Corte europea dei diritti dell’uomo del 23 febbraio 2017, ric. n. 43395/09, nel caso De Tommaso c. Italia, riguardante le misure di prevenzione personali: taluni autori, nel preconizzare l’“onda lunga” di questa pronuncia anche nella contigua materia della documentazione antimafia, hanno fatto rilevare come anche l’informazione antimafia “generica”, nelle ipotesi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), del d. lgs. n. 159 del 2011 (accertamenti disposti dal Prefetto da compiersi anche avvalendosi dei poteri di accesso), sconterebbe un deficit di tipicità non dissimile da quello che, secondo i giudici di Strasburgo, affligge l’art. 1, lett. a) e b), del medesimo d. lgs. n. 159 del 2011. Si è osservato che l’assoluta indeterminatezza delle condizioni che possono consentire al Prefetto di emettere una informazione antimafia “generica”, in tali ipotesi di non meglio determinati accertamenti disposti dal Prefetto, apparirebbe poco sostenibile in un ordinamento democratico che rifugga dagli antichi spettri del diritto di polizia o dalle “pene” del sospetto e voglia ancorare qualsiasi provvedimento restrittivo di diritti fondamentali a basi legali precise e predeterminate. Secondo tale tesi l’art. 84, comma 4, lett. d) ed e) del d. lgs. n. 159 del 2011 – ma con un ragionamento applicabile anche alla seconda parte dell’art. 91, comma 6, dello stesso codice, laddove si riferisce a non meglio precisati «concreti elementi» – non contemplerebbe alcun parametro oggettivo che possa in qualche modo definire il margine di apprezzamento discrezionale del Prefetto, rendendo del tutto imprevedibile la possibile adozione della misura.
-Il Collegio ritiene disattende la tesi innanzi indicata assumendo che anche gli accertamenti disposti dal Prefetto sono finalizzati, infatti, a ricercare elementi dai quali possa desumersi, ai sensi dell’art. 84, comma 3, del d. lgs. n. 159 del 2011 (v. anche art. 91, comma 4), «eventuali tentativi di infiltrazione mafiosa tendenti a condizionare le scelte e gli indirizzi delle società o imprese interessate» e tali tentativi, per la loro stessa natura, possono essere desunti da situazioni fattuali difficilmente enunciabili a priori in modo tassativo. Nella stessa sentenza De Tommaso c. Italia la Corte europea dei diritti dell’uomo ha rammentato, in via generale, che «mentre la certezza è altamente auspicabile, può portare come strascico una eccessiva rigidità e la legge deve essere in grado di tenere il passo con il mutare delle circostanze», conseguendone che «molte leggi sono inevitabilmente formulate in termini che, in misura maggiore o minore, sono vaghi e la cui interpretazione e applicazione sono questioni di pratica» (§ 107), e ha precisato altresì che «una legge che conferisce una discrezionalità deve indicare la portata di tale discrezionalità» (§ 108). Non si può negare che la legge italiana, nell’ancorare l’emissione del provvedimento interdittivo antimafia all’esistenza di tentativi di infiltrazione mafiosa abbia fatto ricorso, inevitabilmente, ad una clausola generale, aperta, che, tuttavia, non costituisce una “norma in bianco” né una delega all’arbitrio dell’autorità amministrativa imprevedibile per il cittadino, e insindacabile per il giudice, anche quando il Prefetto non fondi la propria valutazione su elementi “tipizzati” (quelli dell’art. 84, comma 4, lett. a), b), c) ed f)), ma su elementi riscontrati in concreto di volta in volta con gli accertamenti disposti, poiché il pericolo di infiltrazione mafiosa costituisce, sì, il fondamento, ma anche il limite del potere prefettizio e, quindi, demarca, per usare le parole della Corte europea, anche la portata della sua discrezionalità, da intendersi qui non nel senso, tradizionale e ampio, di ponderazione comparativa di un interesse pubblico primario rispetto ad altri interessi, ma in quello, più moderno e specifico, di equilibrato apprezzamento del rischio infiltrativo in chiave di prevenzione secondo corretti canoni di inferenza logica.
-L’ancoraggio dell’informazione antimafia a soli elementi tipici, prefigurati dal legislatore, ne farebbe un provvedimento vincolato, fondato, sul versante opposto, su inammissibili automatismi o presunzioni ex lege e, come tale, non solo inadeguato rispetto alla specificità della singola vicenda, proprio in una materia dove massima deve essere l’efficacia adeguatrice di una norma elastica al caso concreto, ma deresponsabilizzante per la stessa autorità amministrativa. Quest’ultima invece, anzitutto in ossequio dei principî di imparzialità e buon andamento contemplati dall’art. 97 Cost. e nel nome di un principio di legalità sostanziale declinato in senso forte, è chiamata, esternando compiutamente le ragioni della propria valutazione nel provvedimento amministrativo, a verificare che gli elementi fattuali, anche quando “tipizzati” dal legislatore, non vengano assunti acriticamente a sostegno del provvedimento interdittivo, ma siano dotati di individualità, concretezza ed attualità, per fondare secondo un corretto canone di inferenza logica la prognosi di permeabilità mafiosa, in base ad una struttura bifasica (diagnosi dei fatti rilevanti e prognosi di permeabilità criminale) non dissimile da quella che il giudice penale compie per valutare gli elementi posti a fondamento delle misure di sicurezza personali, lungi da qualsiasi inammissibile automatismo presuntivo, come la Suprema Corte di recente ha chiarito (v., sul punto, Cass., Sez. Un., 30 novembre 2017, dep. 4 gennaio 2018, n. 111). Il giudice amministrativo è, a sua volta, chiamato a valutare la gravità del quadro indiziario, posto a base della valutazione prefettizia in ordine al pericolo di infiltrazione mafiosa, e il suo sindacato sull’esercizio del potere prefettizio, con un pieno accesso ai fatti rivelatori del pericolo, consente non solo di sindacare l’esistenza o meno di questi fatti, che devono essere gravi, precisi e concordanti, ma di apprezzare la ragionevolezza e la proporzionalità della prognosi inferenziale che l’autorità amministrativa trae da quei fatti secondo un criterio che, necessariamente, è probabilistico per la natura preventiva, e non sanzionatoria, della misura in esame. Il sindacato per eccesso di potere sui vizi della motivazione del provvedimento amministrativo, anche quando questo rimandi per relationem agli atti istruttori, scongiura il rischio che la valutazione del Prefetto divenga, appunto, una “pena del sospetto” e che la portata della discrezionalità amministrativa in questa materia, necessaria per ponderare l’esistenza del pericolo infiltrativo in concreto, sconfini nel puro arbitrio.
Ma, come è stato recentemente osservato anche dalla giurisprudenza penale, il sistema delle misure di prevenzione è stato ritenuto dalla stessa Corte europea in generale compatibile con la normativa convenzionale poiché «il presupposto per l’applicazione di una misura di prevenzione è una “condizione” personale di pericolosità, la quale è desumibile da più fatti, anche non costituenti illecito, quali le frequentazioni, le abitudini di vita, i rapporti, mentre il presupposto tipico per l’applicazione di una sanzione penale è un fatto-reato accertato secondo le regole tipiche del processo penale» (Cass. pen., sez. II, 1 marzo 2018, dep. 9 luglio 2018, n. 30974).
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha enucleato – in modo sistematico a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016 e con uno sforzo “tassativizzante” – le situazioni indiziarie, tratte dalle indicazioni legislative o dalla casistica giurisprudenziale, che possono costituire altrettanti “indici” o “spie” dell’infiltrazione mafiosa, non senza precisare che esse, per la loro stessa necessaria formulazione aperta, costituiscono un catalogo aperto e non già un numerus clausus in modo da poter consentire all’ordinamento di poter contrastare efficacemente l’infiltrazione mafiosa all’interno dell’impresa via via che essa assume forme sempre nuove e sempre mutevoli. Si ricordano nell’ambito di questa ormai consolidata e pur sempre perfettibile tipizzazione giurisprudenziale, le seguenti ipotesi, molte delle quali tipizzate, peraltro, in forma precisa e vincolata dal legislatore stesso:
a) i provvedimenti “sfavorevoli” del giudice penale;
b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione, da cui pure emergano valutazioni del giudice competente su fatti che, pur non superando la soglia della punibilità penale, sono però sintomatici della contaminazione mafiosa, nelle multiformi espressioni con le quali la continua evoluzione dei metodi mafiosi si manifesta;
c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011;
d) i rapporti di parentela, laddove assumano una intensità tale da far ritenere una conduzione familiare e una “regia collettiva” dell’impresa, nel quadro di usuali metodi mafiosi fondati sulla regia “clanica”, in cui il ricambio generazionale mai sfugge al “controllo immanente” della figura del patriarca, capofamiglia, ecc., a seconda dei casi;
e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;
f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;
g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, incluse le situazioni, evidenziate in recenti pronunzie del Consiglio di Stato, in cui la società compie attività di strumentale pubblico sostegno a iniziative, campagne, o simili, antimafia, antiusura, antiriciclaggio, allo scopo di mostrare un “volto di legalità” idoneo a stornare sospetti o elementi sostanziosi sintomatici della contaminazione mafiosa;
h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi “benefici”;
i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
–Deve comunque essere qui riaffermato, e con forza, che il sistema della prevenzione amministrativa antimafia non costituisce e non può costituire, in uno Stato di diritto democratico, un diritto della paura, perché deve rispettare l’irrinunciabile principio di legalità, non solo in senso formale ma anche sostanziale, sicché il giudice amministrativo, chiamato a sindacare il corretto esercizio del potere prefettizio nel prevenire l’infiltrazione mafiosa, deve farsi attento custode delle irrinunciabili condizioni di tassatività sostanziale e di tassatività processuale di questo potere per una tutela giurisdizionale piena ed effettiva di diritti aventi rango costituzionale, come quello della libera iniziativa imprenditoriale (art. 41 Cost.), nel necessario, ovvio, bilanciamento con l’altrettanto irrinunciabile, vitale, interesse dello Stato a contrastare l’insidia delle mafie.
-Al delicato bilanciamento raggiunto dall’interpretazione del Consiglio di Stato non osta l’orientamento assunto dalla Corte costituzionale nelle recenti sentenze n. 24 del 27 febbraio 2019 e n. 195 del 24 luglio 2019. Come ha ben posto in rilievo la Corte costituzionale, allorché si versi al di fuori della materia penale, non può del tutto escludersi che l’esigenza di predeterminazione delle condizioni in presenza delle quali può legittimamente limitarsi un diritto costituzionalmente e convenzionalmente protetto possa essere soddisfatta anche sulla base «dell’interpretazione, fornita da una giurisprudenza costante e uniforme, di disposizioni legislative pure caratterizzate dall’uso di clausole generali, o comunque da formule connotate in origine da un certo grado di imprecisione». Essenziale – nell’ottica costituzionale così come in quella convenzionale è che tale interpretazione giurisprudenziale sia in grado di porre la persona potenzialmente destinataria delle misure limitative del diritto in condizioni di poter ragionevolmente prevedere l’applicazione della misura stessa. Non si può dubitare che l’interpretazione giurisprudenziale tassativizzante, a partire dalla sentenza n. 1743 del 3 maggio 2016, consenta ragionevolmente di prevedere l’applicazione della misura interdittiva in presenza delle due forme di contiguità, compiacente o soggiacente, dell’impresa ad influenze mafiose, allorquando, cioè, un operatore economico si lasci condizionare dalla minaccia mafiosa e si lasci imporre le condizioni (e/o le persone, le imprese e/o le logiche) da questa volute o, per altro verso, decida di scendere consapevolmente a patti con la mafia nella prospettiva di un qualsivoglia vantaggio per la propria attività. Né elementi di segno diverso sul piano della tassatività sostanziale, per di più, si traggono dalla ancor più recente sentenza n. 195 del 24 luglio 2019, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale l’art. 28, comma 1, del d.l. n. 113 del 2018, che aveva inserito il comma 7-bis nell’art. 143 del T.U.E.L., laddove la Corte ha rilevato che, mentre per l’attivazione del potere di scioglimento del Consiglio comunale o provinciale occorre che gli elementi in ordine a collegamenti diretti o indiretti con la criminalità organizzata di tipo mafioso, raggiungano un livello di coerenza e significatività tali da poterli qualificare come «concreti, univoci e rilevanti» (art. 143, comma 1, del T.U.E.L.), invece, quanto alle «condotte illecite gravi e reiterate», di cui al comma 7-bis censurato avanti alla Corte, è sufficiente che risultino mere «situazioni sintomatiche», sicché il presupposto positivo del potere sostitutivo prefettizio «è disegnato dalla disposizione censurata in termini vaghi, ampiamente discrezionali e certamente assai meno definiti di quelli del potere governativo di scioglimento dei Consigli comunali e provinciali, pur essendo il primo agganciato a quest’ultimo come occasionale appendice procedimentale». Non è questo il caso, invece, dell’informazione antimafia, anche quella emessa ai sensi dell’art. 84, comma 4, lett. d) ed e), del d. lgs. n. 159 del 2011, poiché gli elementi di collegamento con la criminalità organizzata di tipo mafioso devono essere sempre concreti, univoci e rilevanti, come la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato ha costantemente chiarito. Proprio la sentenza n. 195 del 24 luglio 2019 della Corte costituzionale sembra confermare sul piano sistematico, a contrario, che l’infiltrazione mafiosa ben possa fondarsi su elementi gravi, precisi e concordanti, dotati di coerenza e significatività, quali enucleati dalla giurisprudenza di questo Consiglio, sì che venga soddisfatto il principio, fondamentale in ogni Stato di diritto come il nostro, secondo cui ogni potere amministrativo deve essere «determinato nel contenuto e nelle modalità, in modo da mantenere costantemente una, pur elastica, copertura legislativa dell’azione amministrativa», per usare le parole della Corte costituzionale.
-La tassatività sostanziale, come appena ricordato nella citazione della giurisprudenza costituzionale, ben si concilia con la definita (dalla stessa Corte costituzionale) «elasticità della copertura legislativa», giacché, come sopra detto, nella prevenzione antimafia lo Stato deve assumere almeno la stessa flessibilità nelle azioni e la stessa rapida adattabilità nei metodi, che le mafie dimostrano nel contesto attuale.
-Parimenti il criterio del “più probabile che non” soddisfa le indeclinabili condizioni di tassatività processuale, pure menzionate dalla Corte costituzionale nella già richiamata sentenza n. 24 del 27 febbraio 2019, afferenti alle modalità di accertamento probatorio in giudizio e, cioè, al quomodo della prova e «riconducibili a differenti parametri costituzionali e convenzionali […] tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. e il diritto a un “giusto processo” ai sensi, assieme, dell’art. 111 Cost. e dall’art. 6 CEDU […] di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimità costituzionale del sistema delle misure di prevenzione» (Corte cost., 27 febbraio 2019, n. 24). Lo standard probatorio sotteso alla regola del “più probabile che non”, nel richiedere la verifica della c.d. probabilità cruciale, impone infatti di ritenere, sul piano della tassatività processuale, più probabile l’ipotesi dell’infiltrazione mafiosa rispetto a “tutte le altre messe insieme”, nell’apprezzamento degli elementi indiziari posti a base del provvedimento prefettizio, che attingono perciò una soglia di coerenza e significatività dotata di una credibilità razionale superiore a qualsivoglia altra alternativa spiegazione logica, laddove l’esistenza di spiegazioni divergenti, fornite di un qualche elemento concreto, implicherebbe un ragionevole dubbio (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483), non richiedendosi infatti, in questa materia, l’accertamento di una responsabilità che superi qualsivoglia ragionevole dubbio, tipico delle istanze penali, né potendo quindi traslarsi ad essa, impropriamente, le categorie tipiche del diritto e del processo penale, che ne frustrerebbero irrimediabilmente la funzione preventiva.
-Per queste ragioni il Collegio ribadisce il proprio orientamento, già riaffermato nella sentenza n. 758 del 30 gennaio 2019, senza dover rimettere la questione di legittimità costituzionale degli artt. 8, comma 4, e 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011, per violazione degli artt. 1 Prot. add. CEDU, art. 2 Prot. nn. 4 e 6 CEDU e degli artt. 3, 24, 41, 42, 97 e 111 Cost., né dover rimettere la questione di un eventuale contrasto interpretativo con l’orientamento seguito dal Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana in questa materia all’Adunanza plenaria. Le sentenze del giudice d’appello siciliano – v., ad esempio e per tutte, la n. 385 del 9 luglio 2018 del Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana – non hanno infatti smentito il criterio del c.d. “più probabile che non”, l’unico che possa applicarsi legittimamente in questa materia, ma solo hanno inteso precisarne il senso e potenziarne l’attendibilità del giudizio probabilistico nel senso, che sembra emergere dalla loro lettura, di una rilevante probabilità, superiore ad una certa percentuale (senza peraltro chiarire quale “superiore soglia” di probabilità l’interprete dovrebbe seguire, come del resto ha auspicato anche parte della dottrina più recente). Il Collegio non ravvisa perciò un reale contrasto con l’orientamento assunto dal Consiglio di Giustizia della Regione Siciliana, al di là di alcune astratte affermazioni di principio che si leggono in alcune delle pronunce di detto giudice; pertanto non sembra al Collegio doversi rimettere la questione all’Adunanza plenaria (come, del resto, si immagina per analoghe ragioni, non ha ritenuto di fare sino ad oggi lo stesso Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana). Ciò che connota la regola probatoria del “più probabile che non” non è un diverso procedimento logico, va del resto qui ricordato, ma la (minore) forza dimostrativa dell’inferenza logica, sicché, in definitiva, l’interprete è sempre vincolato a sviluppare un’argomentazione rigorosa sul piano metodologico, «ancorché sia sufficiente accertare che l’ipotesi intorno a quel fatto sia più probabile di tutte le altre messe insieme, ossia rappresenti il 50% + 1 di possibilità, ovvero, con formulazione più appropriata, la c.d. probabilità cruciale» (Cons. St., sez. III, 26 settembre 2017, n. 4483).
Pubblicata in Urbanistica e appalti n. 2/2020, pagg. 243-263, con nota critica di R. Amore.