Chiarisce, con dovizia di argomentazioni, quale motivazione deve sorreggere l’informativa antimafia, indicando un elenco di elementi dai quali il prefetto può desumere il pericolo di infiltrazione.
Afferma, in particolare, che:
– Gli elementi di inquinamento mafioso, ben lungi dal costituire un numerus clausus, assumono forme e caratteristiche diverse secondo i tempi, i luoghi e le persone e sfuggono, per l’insidiosa pervasività e mutevolezza, anzitutto sul piano sociale, del fenomeno mafioso, ad un preciso inquadramento.
– L’autorità prefettizia deve valutare perciò il rischio che l’attività di impresa possa essere oggetto di infiltrazione mafiosa, in modo concreto ed attuale, sulla base dei seguenti elementi:
a) i provvedimenti ‘sfavorevoli’ del giudice penale;
b) le sentenze di proscioglimento o di assoluzione;
c) la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011;
d) i rapporti di parentela;
e) i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia;
f) le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa;
g) le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa;
h) la condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’;
i) l’inserimento in un contesto di illegalità o di abusivismo, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità.
– Innanzitutto rilevano i provvedimenti del giudice penale che dispongano una misura cautelare o il giudizio o che rechino una condanna, anche non definitiva, di titolari, soci, amministratori, di fatto e di diritto, direttori generali dell’impresa, per uno dei delitti-spia previsti dall’art. 84, comma 4, lett. a), del d. lgs. n. 159 del 2011. Tra questi delitti (rilevanti pur se ‘risalenti nel tempo’), un particolare rilievo hanno quelli di turbata libertà degli incanti (art. 353 c.p.), turbata libertà di scelta del contraente (art. 353-bis c.p.), estorsione (art. 629 c.p.), truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), usura (art. 644 c.p.), riciclaggio (art. 648-bis c.p.) o impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita (art. 648-ter c.p.), e quelli indicati dall’art. 51, comma 3-bis, c.p.p., cioè, tra gli altri, i delitti di associazione semplice (art. 416 c.p.) o di associazione di stampo mafioso (art. 416-bis c.p.) o tutti i delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416-bis c.p. o per agevolare le attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, nonché l’art. 12-quinquies del d.l. n. 306 del 1992, convertito con modificazioni dalla l. n. 356 del 1992.
-Rilevano anche tutti i provvedimenti di condanna anche non definitiva per reati strumentali all’attività delle organizzazioni criminali, di cui all’art. 91, comma 6, del d. lgs. n. 159 del 2011.
-Le sentenze di proscioglimento o di assoluzione hanno una specifica rilevanza, ove dalla loro motivazione si desuma che titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa, pur essendo andati esenti da condanna, abbiano comunque subìto, ancorché incolpevolmente, un condizionamento mafioso che pregiudichi le libere logiche imprenditoriali.
– Può rilevare, più in generale, qualsivoglia provvedimento del giudice civile, penale, amministrativo, contabile o tributario, quale che sia il suo contenuto decisorio, dalla cui motivazione emergano elementi di condizionamento, in qualsiasi forma, delle associazioni malavitose sull’attività dell’impresa o, per converso, l’agevolazione, l’aiuto, il supporto, anche solo logistico, che questa abbia fornito, pur indirettamente, agli interessi e agli affari di tali associazioni.
– Rileva anche la proposta o il provvedimento di applicazione di taluna delle misure di prevenzione previste dallo stesso d. lgs. n. 159 del 2011, siano esse di natura personale o patrimoniale, nei confronti di titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e dei loro parenti, proprio in coerenza con la logica preventiva e anticipatoria che sta a fondamento delle misure in esame.
– Quanto ai rapporti di parentela tra titolari, soci, amministratori, direttori generali dell’impresa e familiari che siano soggetti affiliati, organici, contigui alle associazioni mafiose, l’Amministrazione può dare loro rilievo laddove tale rapporto, per la sua natura, intensità, o per altre caratteristiche concrete, lasci ritenere, per la logica del «più probabile che non», che l’impresa abbia una conduzione collettiva e una regìa familiare (di diritto o di fatto, alla quale non risultino estranei detti soggetti) ovvero che le decisioni sulla sua attività possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia, o da un affiliato alla mafia mediante il contatto col proprio congiunto.
– Ai rapporti di parentela l’Autorità amministrativa, in presenza di altri elementi univoci e sintomatici, può anche assimilare quei «rapporti di comparaggio», derivanti da consuetudini di vita. Infatti, specialmente nei contesti sociali in cui attecchisce il fenomeno mafioso, all’interno della famiglia si può verificare una «influenza reciproca» di comportamenti e possono sorgere legami di cointeressenza, di solidarietà, di copertura o quanto meno di soggezione o di tolleranza. Una tale influenza può essere desunta non dalla considerazione (che sarebbe in sé errata e in contrasto con i principi costituzionali) che il parente di un mafioso sia anch’egli mafioso, ma per la doverosa considerazione, per converso, che la complessa organizzazione della mafia ha una struttura clanica, si fonda e si articola, a livello particellare, sul nucleo fondante della ‘famiglia’, sicché in una ‘famiglia’ mafiosa anche il soggetto che non sia attinto da pregiudizio mafioso può subire, nolente, l’influenza del ‘capofamiglia’ e dell’associazione.
– Sotto tale profilo, hanno rilevanza circostanze obiettive (a titolo meramente esemplificativo, ad es., la convivenza, la cointeressenza di interessi economici, il coinvolgimento nei medesimi fatti, che pur non abbiano dato luogo a condanne in sede penale) e rilevano le peculiari realtà locali, ben potendo l’Amministrazione evidenziare come sia stata accertata l’esistenza – su un’area più o meno estesa – del controllo di una ‘famiglia’ e del sostanziale coinvolgimento dei suoi componenti (a fortiori se questi non risultino avere proprie fonti legittime di reddito).
– In materia, possono risultare utili anche i principi formulati da questo Consiglio, in materia di revoca delle licenze di polizia, quando abbiano ad oggetto armi e munizioni, e cioè in una materia in cui similmente si pongono – sia pure sotto distinti profili – aspetti di protezione dell’ordine pubblico. Infatti, l’Autorità di polizia può ragionevolmente disporre la revoca quando il titolare della licenza sia un congiunto di un appartenente alla criminalità organizzata e sia con questi convivente: si può senz’altro ritenere sussistente un pericolo di abuso, quando un’arma sia custodita nella stessa abitazione di un appartenente alla criminalità organizzata, non solo perché è concretamente ipotizzabile che vi sia la possibilità di utilizzare l’arma senza il consenso del titolare della licenza, ma anche perché il legame familiare e la convivenza comportano reciproci condizionamenti.
– Similmente, il provvedimento del Prefetto può ritenere sussistente il pericolo di condizionamento mafioso, quando l’imprenditore conviva con un congiunto, risultato appartenente ad un sodalizio criminoso.
Circa i contatti o i rapporti di frequentazione, conoscenza, colleganza, amicizia, di titolari, soci, amministratori, dipendenti dell’impresa con soggetti raggiunti da provvedimenti di carattere penale o da misure di prevenzione antimafia, l’Amministrazione può ragionevolmente attribuire loro rilevanza quando essi non siano frutto di casualità o, per converso, di necessità.
Se di per sé è irrilevante un episodio isolato ovvero giustificabile, sono invece altamente significativi i ripetuti contatti o le ‘frequentazioni’ di soggetti coinvolti in sodalizi criminali, di coloro che risultino avere precedenti penali o che comunque siano stati presi in considerazione da misure di prevenzione. Tali contatti o frequentazioni (anche per le modalità, i luoghi e gli orari in cui avvengono) possono far presumere, secondo la logica del «più probabile che non», che l’imprenditore – direttamente o anche tramite un proprio intermediario – scelga consapevolmente di porsi in dialogo e in contatto con ambienti mafiosi. Quand’anche ciò non risulti punibile (salva l’adozione delle misure di prevenzione), la consapevolezza dell’imprenditore di frequentare soggetti mafiosi e di porsi su una pericolosa linea di confine tra legalità e illegalità (che lo Stato deve invece demarcare e difendere ad ogni costo) deve comportare la reazione dello Stato proprio con l’esclusione dell’imprenditore medesimo dal conseguimento di appalti pubblici e comunque degli altri provvedimenti abilitativi individuati dalla legge. In altri termini, l’imprenditore che – mediante incontri, telefonate o altri mezzi di comunicazione, contatti diretti o indiretti – abbia tali rapporti (e che si espone al rischio di esserne influenzato per quanto riguarda le proprie attività patrimoniali e scelte imprenditoriali) deve essere consapevole della inevitabile perdita di ‘fiducia’, nel senso sopra precisato, che ne consegue (perdita che il provvedimento prefettizio attesta, mediante l’informativa).
-Rilevano altresì le vicende anomale nella formale struttura dell’impresa, sia essa in forma individuale o collettiva, nonché l’abuso della personalità giuridica. Tali vicende e tale abuso non sono altrimenti spiegabili, secondo la logica del «più probabile che non», se non con la permeabilità mafiosa dell’impresa e il malcelato intento di dissimularla, come, ad esempio, nei casi previsti dall’art. 84, comma 4, lett. f), del d. lgs. n. 159 del 2011 e, cioè, le sostituzioni negli organi sociali, nella rappresentanza legale della società, nonché nella titolarità delle imprese individuali ovvero delle quote societarie, effettuate da chiunque conviva con soggetti destinatati di provvedimenti di cui alle lettere a) e b) dello stesso art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, realizzate con modalità che, per i tempi in cui vengono realizzati, il valore economico delle transazioni, il reddito dei soggetti e le qualità dei subentranti, «denotino l’intento di eludere la normativa sulla documentazione antimafia».
-Rilevano, più in generale, tutte quelle operazioni fraudolente, modificative o manipolative della struttura dell’impresa, che essa esercitata in forma individuale o societaria:
– scissioni, fusioni, affitti di azienda o anche solo di ramo di azienda, acquisti di pacchetti azionari o di quote societarie da parte di soggetti, italiani o esteri, al di sopra di ogni sospetto, spostamenti di sede, legale od operativa, in zone apparentemente ‘franche’ dall’influsso mafioso;
– aumenti di capitale sociale finalizzati a garantire il controllo della società sempre da parte degli stessi soggetti, patti parasociali, rimozione o dimissioni di sindaci o controllori sgraditi;
– walzer di cariche sociali tra i medesimi soggetti, partecipazioni in altre società colpite da interdittiva antimafia, gestione di diverse società, operanti in settori diversi, ma tutte riconducibili alla medesima governance e spostamenti degli stessi soggetti dalle cariche sociali dell’una o dell’altra, etc.
Tali operazioni vanno considerate fraudolente, quando sono eseguite al malcelato fine di nascondere o confondere il reale assetto gestionale e con un abuso delle forme societarie, dietro il cui schermo si vuol celare la realtà effettiva dell’influenza mafiosa, diretta o indiretta, ma pur sempre dominante.
-Rilevano inoltre le vicende anomale nella concreta gestione dell’impresa, riscontrate dal Prefetto anche mediante i poteri di accesso e di accertamento di cui alle lettere d) ed e) dell’art. 84, comma 4, del d. lgs. n. 159 del 2011, consistenti in fatti che lasciano intravedere, nelle scelte aziendali, nelle dinamiche realizzative delle strategie imprenditoriali, nella stessa fase operativa e nella quotidiana attività di impresa, evidenti segni di influenza mafiosa. Tale casistica è assai varia ed è ben nota alla giurisprudenza di questo Consiglio, potendo avere rilievo, a solo titolo esemplificativo:
– le cc.dd. teste di legno poste nelle cariche sociali, le sedi legali con uffici deserti e le sedi operative ubicate presso luoghi dove invece hanno sede uffici di altre imprese colpite da antimafia;
– l’inspiegabile presenza sul cantiere di soggetti affiliati alle associazioni mafiose;
– il nolo di mezzi esclusivamente da parte di imprese locali gestite dalla mafia;
– il subappalto o la tacita esecuzione diretta delle opere da parte di altre imprese, gregarie della mafia o colpite da interdittiva antimafia;
– i rapporti commerciali intrattenuti solo con determinate imprese gestite o ‘raccomandate’ dalla mafia;
– le irregolarità o le manomissioni contabili determinate dalla necessità di camuffare l’intervento e il tornaconto della mafia nella effettiva esecuzione dell’appalto;
– gli stati di avanzamento di lavori ‘gonfiati’ o totalmente mendaci;
– l’utilizzo dei beni aziendali a titolo personale, senza alcuna ragione, da parte di soggetti malavitosi;
– la promiscuità di forze umane e di mezzi con imprese gestite dai medesimi soggetti riconducibili alla criminalità e già colpite, a loro volta, da interdittiva antimafia;
– l’assunzione esclusiva o prevalente, da parte di imprese medio-piccole, di personale avente precedenti penali gravi o comunque contiguo ad associazioni criminali;
– i rapporti tra impresa e politici locali collusi con la mafia o addirittura incandidabili, etc.
– Quanto alla condivisione di un sistema di illegalità, volto ad ottenere i relativi ‘benefici’, la perdita di ‘fiducia’ – giustificativa della interdittiva – si può legittimamente basare anche sulla manifestata disponibilità dell’imprenditore di far parte di un sistema di gestione di un settore, caratterizzato da illegalità, con ‘scambi di favori’ (riferibili, ad es., ad una volontaria mancata partecipazione ad una gara, ‘in cambio’ di successivi vantaggi).
Può avere un rilievo decisivo – per escludere la fiducia necessaria perché vi siano i contatti con la pubblica Amministrazione – anche l’inserimento dell’imprenditore in un contesto di illegalità o di abusivismo, reiterato e costante o anche solo episodico, ma particolarmente allarmante, in assenza di iniziative volte al ripristino della legalità, sintomatiche di una sostanziale impunità. In tali casi, il Prefetto può senz’altro desumere ulteriori argomenti per ritenere che l’imprenditore possa contare in loco su ‘coperture’ e connivenze, anche presso gli uffici pubblici, valendosi del clima tipico di una realtà pervasa e soggiogata dall’influenza mafiosa.
Può essere sufficiente a giustificare l’emissione dell’informativa anche uno dei sopra indicati elementi indiziari: la valutazione del provvedimento prefettizio si può ragionevolmente basare anche su un solo indizio, che comporti una presunzione, qualora essa sia ritenuta di tale precisione e gravità da rendere inattendibili gli elementi di giudizio ad essa contrari. Ciò in quanto il ragionamento indiziario può fondarsi anche su un unico elemento presuntivo, purché non contrastato da altro ragionamento presuntivo di segno contrario, con la conseguenza che il requisito della concordanza, previsto dall’art. 2729 c.c., perde il carattere di requisito necessario e finisce per essere elemento eventuale della valutazione presuntiva, destinato ad operare solo laddove ricorra una pluralità di presunzioni (v., ex plurimis, Cass., sez. I, 26.3.2003, n. 4472).
-Circa la motivazione, come sopra si è osservato in termini generali, per ciascuno o anche uno solo di essi il Prefetto dovrà indicare con precisione, nell’informativa, gli elementi di fatto e motivare, anche mediante il rinvio, per relationem, alle relazioni eseguite dalle Forze di Polizia, le ragioni che lo inducono a ritenere probabile che da uno o più di tali elementi, per la loro attualità, univocità e gravità, sia ragionevole desumere il pericolo concreto di infiltrazione mafiosa nell’impresa: se la valutazione unitaria non traspare dagli atti del procedimento, occorre che essa sia effettuata dal Prefetto, con una motivazione che può anche non essere analitica e diffusa, ma che richiede un calibrato giudizio sintetico su uno o anche più di detti elementi presuntivi, sopra indicati.
La valutazione della prova presuntiva, giova qui ricordare, esige che dapprima il Prefetto in sede amministrativa (come poi il giudice amministrativo nell’esercizio dei suoi poteri quale giudice di legittimità) esamini tutti gli indizi di cui disponga, non già considerandoli isolatamente, ma valutandoli complessivamente ed alla luce l’uno dell’altro, senza negare valore ad uno o più di essi sol perché equivoci, così da stabilire se sia comunque possibile ritenere accettabilmente probabile l’esistenza del fatto da provare.